lunedì 21 novembre 2016

L'incanto di una storia

 L'incanto di una storia di Clarissa Pinkola Estés, Frassinelli, 1997.
Numero di pagine: 58
Titolo originale: The Gift of Story: A Wise Tale About What is Enough
Lingua originale: inglese
Prima edizione: 1993
Prima edizione italiana: 1997
Genere: raccolta di racconti

Un altro libricino dell'autrice di Donne che corrono coi lupi; è appunto un volume piccolo e scorrevole, in cui viene evocata la figura della zia Irena, uno dei personaggi che fanno parte della tribù di narratori e gente semplice della famiglia dell'autrice. E' proprio questa colorita vecchina a fare dono alla Estés, allora bambina, di una storia su ciò che è importante nella vita, ciò che davvero conta. E così inizia un viaggio in cui una storia si incastra in un altra, fino ad arrivare al nucleo centrale, costrituito dall'amore, e dall'importanza di narrare e tramandare questa consapevolezza. Il modo di scrivere, semplice ma efficace e fiabesco della Estés, rende questo volumetto una piacevole lettura, magari da consultare vicino al fuoco, nella quiete di un pomeriggio autunnale.
Questa prima edizione è difficile da trovare, ma il testo è stato raccolto in Storie di Donne Selvagge, in cui si possono trovare anche Il giardiniere dell'anima, già pubblicato per Frassinelli, ed altri due scritti brevi.

Il giardiniere dell'anima

 Il giardiniere dell'anima di Clarissa Pinkola Estés, Frassinelli, 2006.
Numero pagine: 120
Titolo originale: The Faithfull Gardener: A Wise Tale about That Which Can Never Die
Lingua originale: inglese
Prima edizione: 1995
Prima edizione italiana: 1996
Genere: raccolta di racconti

Come altri libri dell'Estés, questo è un regalo di mia madre, forse per ringraziarmi di averle fatto scoprire Donne che corrono coi lupi, o forse perché non sa mai cosa regalarmi, e così va sul sicuro. Fatto sta che questo libricino mi è arrivato come un piccolo dono; infatti è un volume breve, esteticamente curato, che contiene parole brillanti. L'autrice rievoca, mischiando il ricordo alle storie, la figura dello Zio Zovàr, reduce ungherese dagli orrori della guerra, venuto in America ad allargare le fila della colorita famiglia adottiva della Estés. Ed attraverso gli atti e i racconti di questo contadino d'altri tempi, si tesse una trama che parla di terra, fisica e bruna, a volte violata, incendiata, così come di anima, e di come guarire ed alimentare entrambe attraverso le storie, con la sicurezza che ci sono cose che non possono mai morire, ma solo trasformarsi e passare per oscuri cambiamenti.
In questo caso quindi le parole semplici ma grandemente evocative dell'Estés non sono rivolte solo alle donne, ma a tutti coloro che in qualche tempo hanno subito una ferita.
Questo testo è contenuto anche in Storie di Donne Selvagge insieme a L'incanto di una storia e a due inediti.

Storie di donne selvagge

Storie di Donne Selvagge di Clarissa Pinkola Estés, Frassinelli, 2008.
Numero di pagine: 173
Lingua originale: inglese
Prima edizione: non esiste un'edizione inglese che comprenda tutti gli scritti qui raccolti.
Prima edizione italiana: 2008
Genere: raccolta di racconti

Da quando lessi per la prima volta Donne che corrono coi lupi, ormai più di 10 anni fa, la Estés è per me una garanzia, e chi mi sta intorno lo sa, così questo volumetto mi è arrivato in regalo.
Ad una prima esaltazione però, ha fatto seguito la constatazione della dura realtà: non si tratta di una nuova profonda indagine sul femminino selvaggio, ma bensì di una raccolta di testi per lo più già pubblicati e presenti nella mia biblioteca.
Storie di Donne Selvagge contiene infatti Il giardiniere dell'anima e L'incanto di una storia, e due altri testi brevi inediti: I maghi della pioggia e Care anime coraggiose...non perdetevi d'animo.
I maghi della pioggia parla di come in questo tempo non paradisiaco ognuno sia chiamato a curare la sua piccola parte di terra e di vita, per farla tornare a splendere come un giardino dell'Eden. Seguono due storie su due maghi della pioggia appunto, ovvero persone in grado di prendersi cura di ciò che cresce, che senza clamore sistemano e raddrizzano le cose, trasformando il mondo nel loro piccolo, prendendosi cura di ciò che è tenero e inerme.
L'ultima parte della raccolta contiene un'esortazione ad agire, anche nel nostro piccolo, senza perdere il coraggio, per dare il proprio personale ma fondamentale contributo a questa bisognosa Terra.
Come sempre il linguaggio dell'Estés è fiabesco ma anche vicino al quotidiano, parla alla mente ma tanto di più a ciò che sta dietro o più in basso rispetto ad essa, il cuore e l'anima selvaggia, questa volta non più solo delle donne, ma di tutti coloro che su questa terra possono creare desolazione o giardino.
Questi testi brevi, sono molto diversi da Donne che corrono coi lupi; benché il modo di raccontare e di trarre insegnamenti per l'anima dalle storie sia un carattere tipico e irrinunciabile dell'Estés, che costituisce il suo tratto più personale ed alimenti il fascino dei suoi libri, questo volume mi è sembrato molto meno incisivo e fondamentale del primo saggio dell'autrice. Tuttavia questa raccolta merita di essere letta, per cullarsi un poco nell'atmosfera fiabesca, calda e vicina all'infanzia che sa evocare. Certo però, se come me avete già altre edizioni dei testi pubblicati nel volume, e se, sempre come me, siete squattrinati, forse questo non è l'investimento più oculato che si possa fare...insomma, se proprio lo volete, provate a farvelo regalare anche voi!

Figlie del sole

Figlie del Sole di Kàroly Kerényi, Bollati Boringhieri, 2008.
Numero di pagine: 141
Titolo originale: Töchter der Sonne, Betrachtungen über griechische GottheitenLingua originale: tedesco
Prima edizione: 1944
Prima edizione italiana: 1948
Genere: saggio

Erano anni che volevo leggerlo, un po' perché scritto da Kerényi, che è se non una garanzia di chiarezza, quanto meno di interessanti riflessioni sul mito ed il suo linguaggio;  in più qui ci sono un commento di Pavese sul retro ed una prefazione di Brelich. Insomma, se non un Olimpo d'antichisti, almeno un Parnaso.
Per altro, l'argomento trattato, figure femminili nella mitologia greca, è una mia antica passione.
Figlie del Sole, in cui sono raccolti i testi di alcune conferenze tenute dall'autore, si apre con la suddetta prefazione in cui sono inquadrati il contributo e l'opera di Kerényi.
Nella prima parte intitolata "Il padre e il re", l'autore indaga, servendosi del mito, alcuni caratteri fondamentali del Sole, quali la luce intesa come fondamento della vista e la capacità paterna e generativa, che è anche auto-rigenerativa, in quanto Helios, che da luce e vita, è virtualmente anche Ade, colui che nel buio ctonio regna sui morti. Ma il sole si rigenera ogni mattino, riportando la luce. S'indaga quindi sull'origine di Helios, figlio del Titano Iperione e detto anch'esso Titano, insieme alla sua stirpe, che porta all'emergere del tema della regalità, che se in greco è esplicata nei termini basileus "re" e basileia "regina" era, forse in tempo pre-ellenico, appannaggio e dono principalmente femminile. Inizia dunque una ricerca della Regina nel mito greco.
Nella seconda parte "La ricerca della regina" l'indagine prosegue prendendo in analisi appunto le Figlie e le discendenti del Sole, partendo dalle Eliadi e dalla loro misteriosa madre, ed allargando poi a figure più ampiamente caratterizzate: la maga Circe e l'assassina Medea (rispettivamente figlia e nipote del sole), e più oltre ancora con Hera e l'aurea Afrodite. La chiusura avviene con Pasifae, figlia anch'essa del Sole, e con un accenno alle sue stesse luminose figlie, Fedra e Arianna.
Come rilevato dall'autore stesso, non si arriva ad una conclusione, che è comunque impossibile tracciare quando si parla di mitologia. Ma l'immagine celeste e ctonia, solare e notturna allo stesso tempo, ci appare come un arazzo intrecciato con fili d'oro e d'argento, nel quale seppure la figura della misteriosa Regina rimane celata, pur tuttavia se ne possono individuare le tracce.
L'unico neo, in particolare per un antichista, è la mancanza di note che rimandino ai testi originali.
Questa edizione, ora difficilmente trovabile, può essere sostituita da quella del 2014, nella quale spero abbiano aggiornato i caratteri di stampa, essendo quelli del presente volume antiquati.
Un libro piuttosto complesso dunque, sicuramente più facilmente accessibile a chi non fosse digiuno di mitologia e testi classici, ma comunque godibile per la capacità di Kerényi di unire termini specifici alla poesia del racconto mitologico.

giovedì 10 novembre 2016

Storia notturna

Storia notturna - Una decifrazione del sabba di Carlo Ginzburg, Einaudi, 2008.
Numero pagine: 364
Lingua originale: italiano
Prima edizione: 1989
Genere: saggio

Udite udite, questo l'ho comprato. Non è stato un regalo (se non di me a me stessa), né l'ho recuperato roccambolescamente in qualche mercatino dimenticato da dio e dagli uomini. No, è pure nuovo.
Anche se ieri ne ho trovata una copia usata e mi sono mangiata le mani. Ma comunque.
Non è stato un libro facile, forse anche perché mi ha accompagnato in posti e situazioni insospettabili, tanto che c'è stato chi mi ha chiesto come faccio a leggere cose del genere, ma se si è interessati, come me, alla figura della strega, questo è uno dei primi libri in cui s’incappa, benché sia stato anche fortemente contestato.Così, dopo anni e anni dalla prima volta in cui l’ho trovato nella bibliografia di altri studi, in un giorno di malinconia mi sono fatta un regalo (oh, ognuno ha le sue gioie), e mi sono immersa nelle sue pagine.
E’ un libro molto complesso, che riporta miriadi di informazioni, un testo accademico se vogliamo, non sicuramente una lettura leggera.
Nell’introduzione, dopo aver brevemente tracciato gli elementi più comuni del sabba, l’autore pone la domanda fondamentale sottesa a questo studio: “Come e perché si cristallizzò l’immagine del sabba? Cosa si nascondeva dietro ad essa?” (pag. XIV)
Di seguito analizza le posizioni dei principali studiosi del fenomeno, senza tralasciare quella della Murray di cui alcuni l’anno detto seguace, aspramente criticata dagli altri accademici per il suo metodo nel teorizzare l’esistenza di un culto dianico d’origine preistorica, di cui le streghe sarebbero state gl’epigoni. E qui Ginzburg sorprendentemente, dà in parte ragione alla studiosa britannica: alcune delle credenze delle streghe verrebbero effettivamente da un substrato antichissimo (quantunque non organizzate in un vero e proprio culto così come la Murray l’aveva inteso) una cultura folklorica che si sarebbe scontrata e contaminata con quella dotta di inquisitori e demonologi.
Per sostenere questa tesi, nella prima parte si prendono in considerazione i fenomeni e i fatti storici che avrebbero favorito il cristallizzarsi del sabba: le persecuzioni medievali di lebbrosi in Europa, che avrebbero a poco a poco portato a galla l’idea di un complotto di minoranze-setta ai danni della cristianità.
Approfondisce poi i presupposti della persecuzione ebraica, che vedevano l’ebreo come il diffusore della peste. Nel corso del ‘300 però, poco a poco nell’immaginazione popolare a lebbrosi prima e ad ebrei poi, si sostituisce una nuova inquietante setta, quella delle streghe, in un progressivo allargarsi a macchia d’olio dei possibili adepti, sempre meno riconoscibili. Inizialmente poco distinguibili dagli eretici quali i Valdesi, poiché secondo l’ordine costituito ne condividevano alcuni atteggiamenti, quali il cannibalismo, la sessualità sfrenata sfociante nell’incesto, il rifiuto dei sacramenti, le cerimonie notturne, l’adorazione di un dio animalesco. A questo miscuglio di credenze ostili però, mancavano ancora alcuni elementi che poi sarebbero confluiti nell’immagine del sabba: la metamorfosi animale ed il volo notturno.
Nella seconda parte partendo dai documenti che parlano della Signora del Gioco (sia essa chiamata Diana, Erodiade, Oriente, Bensozia, Abundia, Fortuna, Richella e tutte le sue varianti) teorizza che i suoi cortei notturni, caratterizzati dai concetti di gioco ed abbondanza, seguiti soprattutto da donne, abbiano radici in culti estatici provenienti da un sostrato Celtico, e che la Signora stessa derivi da dee quali Epona e le Matres, alle quali in epoca romana s’era via via sovrapposta Diana.
Una sorta di corrispettivo maschile sarebbe la caccia selvaggia, seguita e guidata soprattutto da uomini.
In un capitolo dedicato a sanare le incongruenze della sua teoria, prendendo in considerazione, fra le altre cose, anche le credenze nelle “donne di fuori” siciliane, approfondisce il rapporto fra la Dea notturna e gli animali che è in grado di riportare in vita.
Passa dunque al tema del combattere in estasi per la fertilità, già tracciato parlando della caccia selvaggia, partendo dai Benandanti friulani (ai quali aveva già dedicato un saggio precedente, I beneandanti) ed avvalendosi di esempi provenienti da diverse aree d’Europa, in cui si riscontra nuovamente la presenza dei morti, la metamorfosi animale, la resurrezione degli animali, ma questa volta riferita principalmente a soggetti maschili. Rileva quindi i parallelismi con ciò che si sa dei culti sciamanici eurasiatici.
Analizzando alcune tradizioni legate alla fine dell’anno, che prevedevano il travestimento animale in un periodo cruciale per l’abbondanza, connette i temi trattati in precedenza, sostenendo che sarebbero ispirati ai viaggi estatici nel mondo dei morti, che si svolgono in precisi momenti dell’anno in cui la sopravvivenza viene minacciata e l’ordine cosmico va per tanto rifondato.
Nella terza ed ultima parte identifica la trasmissione di queste credenze dai nomadi centro asiatici attraverso Sciti, Traci, Greci e Celti fino nell’Europa tardo medievale, dove sarebbero confluiti nell’immagine del sabba così come noi lo conosciamo. La fonte comune di entrambi gli schemi, quello maschile e quello femminile, deriverebbe da un archetipo comune di connessione all’altro, l’altrove per eccellenza, che connette anime, animali e morti: l’al di là, il mondo dei morti. E le streghe furono chiamate ad incarnare proprio quest’altro inquietante, magico, ma anche traboccante.
Nella conclusione prende in considerazione l’appartenza dei voli estatici non solo al mito ma anche alla realtà tramite l’utilizzo di sostanze psicoattive quali la segale cornuta, l’ammanita muscaria e le secrezioni della pelle del rospo.
Il volume si chiude un indice dei nomi, indice dei luoghi, mentre la bibliografia è inserita nelle note ai singoli capitoli.
Come si può vedere da questo breve schema dei contenuti, questo è un lavoro molto complesso, in cui però la comparazione formale degli innumerevoli dati non intacca il rigore cronologico e geografico dell’autore. Certo le conclusioni non sono scontate, e non avendo gli strumenti per appoggiarle o contestarle, mi limito a suggerirne un’attenta lettura.
Per completare la visuale sui lavori i Ginzburg consiglio oltre al già citato I benandanti, anche Il formaggio e i vermi.

lunedì 7 novembre 2016

Una spia nella casa dell'amore

Una spia nella casa dell’amore di Anaïs Nin, Bompiani, 1990.
Numero di pagine: 160
Titolo originale: A Spy in the House of Love
Lingua originale: inglese
Prima edizione: 1954
Prima edizione italiana: 1979
Genere: romanzo
Ambientazione: New York
Epoca: seconda metà XX sec.

Sì, lo sapete già, viene dal mercatino dei libri usati.
Ho già letto varie cose di Anais Nïn, così c’è voluto poco per decidersi a prenderlo. Già il nome, quando ancora non ne sapevo nulla, mi suonava affascinante, esotico, ed invece Anaïs era d’oltralpe, una vicina di casa del secolo scorso.
Eppure, nonostante la distanza spazio temporale che ci divide, quando leggo pagine scritte da lei, ho sempre una sensazione di vicinanza. Forse perché essendo donna sapeva svelare i meccanismi interni delle donne (o di alcune donne?), sapeva dire la verità che sta dietro ad azioni, maschere, ritrosie. E poi, la libertà che, dalle sue parole, sapeva concedersi riguardo alla sua sessualità è ancora oggi un esempio attuale di franchezza.
In questo libro in particolare, la protagonista, Sabina, ha a che fare con quello che anche per me è un dilemma non da poco: chiudersi in un unico amore o viverne tanti? Sabina ha Alan, il marito che è un’oasi di sicurezza, Philip, il tedesco uscito dalle favole della Foresta Nera, Mambo, il suonatore di tamburi, John, il ragazzo ferito dalla guerra, e Donald,l’adulto-bambino abbandonato dalla madre. Tante Sabine, una per ognuno degli uomini che ama, ma è proprio questa frammentazione che rischia di mandare all’aria l’unità fondamentale del suo essere, è dalla mancanza di unità che viene l’ansia, il senso di colpa, l’agitazione che caratterizzano finanche i suoi gesti. Se per ogni uomo ci si converte in ciò che i suoi desideri chiedono, nascondendo tutto il resto, cosa resta della donna originale?
E così si diventa spie nella casa dell’amore, o di molti amori, indossando sempre una diversa identità, sperando di non venire scoperte ad appartenere anche ad altre fazioni, intessendo bugie e mezze verità.
E’ l’episodio iniziale, ripreso nel finale, che scioglie la molteplicità: l’amore deve essere in grado di comprendere tutte le facce di un essere umano, non cristallizzarsi solo su quella che per prima ha conosciuto. Questo è ciò che gli uomini di Sabina non sono stati capaci di fare…e lei?
“Mi liberi,” disse Sabina allo scopribugie. “Liberatemi. L’ho detto a tanti uomini:  ‘Riuscirai a liberarmi?’” Rise. “Ero pronta a dirlo anche a lei.”
“Deve liberarsi da sé. E succederà con l’amore…” rispose lo scopribugie.
“O, se bastasse questo, ho amato a sufficienza. Ho amato moltissimo. Guardi il suo taccuino. Sono sicura che è pieno di indirizzi.”
“Lei non ha ancora amato,” fece l’altro. “Ha soltanto provato, incominciato ad amare. La fiducia da sola non è amore, il desiderio da solo non è amore, l’illusione non è amore. Questi erano tutti sentieri che la portavano fuori di sé, è vero, e lei ha creduto che conducessero verso un’altra persona, ma l’altro non l’ha mai raggiunto. Era solo per strada. Adesso sarebbe capace di uscire e trovare le altre facce di Alan, che non ha mai cercato di vedere, o di accettare?
Riuscirebbe a scoprire l’altra faccia di Mambo, che lui le nasconde con tanta delicatezza? Lotterebbe per trovare l’altra faccia di Philip?” (pagg. 152-153)
[…] “E adesso sei in fuga, dalla colpa dell’amore diviso, e dalla colpa di non amare. Povera Sabina, non avresti mai smesso di girare. Hai cercato la tua interezza nella musica… La tua è una storia di non amore… e sai Sabina, se tu fossi stata arrestata e processata, ti sarebbe stata inflitta una condanna meno severa di quella che tu infliggi a te stessa. Noi siamo i giudici più severi delle nostre azioni.” (pag. 154)

Il linguaggio dei fiori selvatici

 Il linguaggio dei fiori selvatici di Sheila Pickles, Gremese Editore, 1996.
Numero di pagine: 96
Titolo originale: The Language of Wild Flowers
Lingua originale: inglese
Prima edizione: 1995
Prima edizione italiana: 1996
Genere: raccolta, libro illustrato

Questo bellissimo volume, manco a dirlo, è usato. Mi è capitato in mano mentre tanto per cambiare scorrevo i libri alla ricerca di qualcosa d’interessante.
Il titolo ha colpito la mia curiosità da subito, ma il contenuto è diverso da quello che mi ero immaginata. Già rigirando il cofanetto fra le mani sono rimasta incantata dai disegni, non generiche rappresentazioni floreali, ma esemplari botanici ben definiti e riconoscibili a far da cornice alla scritta. Estraggo il volume dal cofanetto e capisco subito che si tratta di un libro di un certo pregio; appena lo apro rimango catturata dalle figure: donne vestite all’antica con mazzi di fiori dai molti colori, fanciulle sedute fra i prati primaverili, tavole botaniche curate nei particolari di alcuni dei fiori che amo.
L’introduzione, fin dall’esordio, mi piace molto: “Caro lettore, questo libro dovrebbe essere letto soltanto per puro piacere: non si rivolge agli specialisti, e si occupa del comune piuttosto che del raro”(pag. 5) E poi un’elogio dei miei cari fiori spontanei: “Mi auguro che questo libro possa essere utile per rievocare una parte di quel piacere infantile che ci dà la flora selvatica. Questi fiori dei campi, così familiari e ognuno con un suo carattere delineato dalla natura circostante, rappresentano la lingua madre della nostra immaginazione” (pag. 6) L’Autrice, basandosi sul libro ottocentesco di Madame de la Tour, Le Langage des Fleurs, dedica una o più pagine a singole piante e per ognuna oltre a trascrivere nome botanico e significato nel linguaggio dei fiori, propone splendidi dipinti, poesie, credenze popolari, vecchie tradizioni ed usi casalinghi, in poche righe. I brani poetici di autori vari, hanno quell'atmosfera fiabesca da romanticismo inglese che unisce la parola all'amore per la natura, nel sublime come nell'oscuro. Ma le immagini, che trasportano in giardini inglesi dell’ottocento, o fra i silenziosi boschi europei, sono forse ciò che più dà grazia al volume, insieme ad una veste tipografica accurata ed elegante. Ed in fine, una rara raffinatezza: le pagine sono state profumate con fragranza di Campanula, poiché, spiega l’autrice “è il profumo che rappresenta quasi perfettamente l’aroma forte, fresco e boscoso di questi splendidi fiori di campo” (pag. 6)
Se siete arrivati fin qui avrete capito che stiamo parlando di un testo davvero piacevole, pregiato e leggero, di quelli che si possono sfogliare anche solo per guardare le figure, o aprire ogni tanto per lasciarsi trasportare da qualche riga di poesia, od anche da tenere in casa aperto su qualche ripiano, quasi un quadretto mutevole, una finestra su un lontano giardino.
Purtroppo non è di facilissima reperibilità, così come gli altri di quest'Autrice ma è una piccola perla che vale la pena cercare.

Utilità
Pur essendo Sheila Pickles Autrice di un certo numero di opere in italiano oltre al libro in questione è stato tradotto solo Il grande libro del linguaggio dei fiori del 1999 dello stesso editore.

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